Inherent Vice - I gelatinosi anni '70
- Silvio Scarpelli
- 21 mag 2021
- Tempo di lettura: 10 min
Dopo l’acerbo Sidney (Hard Eight, 1997) Paul Thomas Anderson con Inherent Vice (Vizio di forma, 2014) torna a trattare temi riconducibili al concetto di neo-noir. Se infatti l’esordio del regista americano era invischiato in una serie di complicazioni produttive, e nonostante questo lasciava intravedere una certa idea di cinema, l’ultima fatica tratta dall’omonimo romanzo di Thomas Pynchon si inserisce nel panorama contemporaneo come un’operazione in grado di coniugare la classicità del racconto con gli strumenti del postmoderno. Parlare di postmodernità di fronte al testo di Pynchon può apparire banale se non scontato, meno immediato è invece il processo di restaurazione del classico innescato dal cinema di Anderson, ovvero la capacità di snocciolare, parola per parola, la prosa fluviale e schizoide dello scrittore e convertirla in immagine. Inherent Vice ci racconta un mondo frammentato, uno spazio che ha perso i confini e dalla toponomastica intricata; tutti i personaggi sembrano intrappolati dentro una realtà a forma di budino, i gelatinosi anni Settanta: dal protagonista Larry “Doc” Sportello fino al suo manesco alter-ego “Bigfoot” Bjornsen, passando per la fantasmatica e sensuale Shasta Hepworth e alla lunga sequela di personaggi che si affastellano e ingarbugliano le loro traiettorie.
La tendenza di Anderson a reinventarsi storie in epoche distanti la dice lunga sul senso di smarrimento dell’autore e sull’impenetrabilità del cinema hollywoodiano nel contemporaneo. Boogie Nights (Boogie Nights - È successo a Hollywood, 1997) raccontava l’ascesa e la caduta del cinema porno negli anni Settanta; There Will Be Blood (Il petroliere, 2007) andava alle radici del capitalismo di inizio Novecento; The Master (id., 2012) era ambientato nel secondo dopoguerra. Anche i coevi Magnolia (id., 1999) e Punch-Drunk Love (Ubriaco d’amore, 2002) sono narrazioni atipiche, intessute sul concetto di evaporazione del racconto, ma che al contempo, come avviene in Inherent Vice, preservano nell’infinitesimale spazio di una sequenza la totalità di sguardo e di racconto tipico del cinema classico americano. Così come gli short-cuts carveriani messi in scena da Robert Altman, nume tutelare dell’immaginario cinematografico di Anderson, derubricavano il concetto classico di sceneggiatura facendo coesistere in uno specifico spazio territoriale drammi di diversa natura osservati da molteplici punti di vista (Magnolia sembrerebbe un sequel inconfessato), in Inherent Vice avviene la reductio ad unum: l’investigatore privato Larry “Doc” Sportello, hippy fuori tempo massimo, si ritrova suo malgrado come unico testimone[1] di una realtà informe, e il cui scopo nel corso del racconto non è risolvere un mistero o scovare l’assassino, ma decifrare il puzzle che lo circonda. Il film di Anderson può essere dunque letto come un naturale proseguimento del neo-noir classico, dai filologici Chinatown (id., 1974) di Roman Polanski e L.A. Confidential (id., 1997) di Curtis Hanson, intriso però da una serie di caratteristiche che lo collocano in una posizione defilata rispetto all’aderenza al genere dei due titoli citati. Nel testo di Pynchon e nel film di Anderson coesistono infatti diverse sfumature che rendono complicato l’incasellamento nel genere: si passa dal grottesco alla commedia slapstick, dalla satira al melò, dal film psichedelico alla detective story. Gli archetipi rimangono, coesistono e si azzuffano in un universo sfumato e alterato dalle droghe che il protagonista assume nel corso della narrazione. A condire il tutto l’ottima interpretazione di Joaquin Phoenix, il quale possiede un côté incline al genere grazie all’interpretazione di Jimmy Emmet nel To Die For (Da morire, 1995) di Gus Van Sant e ai thriller diretti da James Gray. Qui però Phoenix, già attore di Anderson in The master, ribalta la figura di Freddy Quell slegata dalla realtà per interfacciarsi con un ruolo paranoide e impossibilitato a comprendere il tutto, ma solo piccoli brandelli difficili da cucire. Quella di Phoenix è una recitazione sospesa e interdetta dalle apparizioni dell’amata Shasta, l’ex-ragazza invischiata in malaffari con Mickey Wolffman, un pezzo grosso dell’edilizia californiana.

2. ‹‹Gordita Beach, California, 1970››
Larry “Doc” Sportello, investigatore privato perennemente strafatto di marijuana, un reduce degli anni d’oro della cultura hippy ridotto a vivere di ricordi, riceve la visita dell’ex fidanzata Shasta: la donna gli chiede di rintracciare il suo amante, il miliardario Mickey Wolfman, poiché teme che l’uomo sia stato rapito dalla moglie dell’amante di quest’ultima. Doc accetta di aiutarla, ma fin da subito viene coinvolto suo malgrado in un caso intricato e pericoloso a monte del quale ci sarebbe la misteriosa società Golden Fang, responsabile del commercio di droga nella città, dell’infiltrazione nei movimenti di protesta di hippy al soldo della polizia, della gestione di una clinica in cui si pratica il lavaggio del cervello. Ad ostacolare le indagini di Doc c’è l’integerrimo e manesco poliziotto anti-hippy Christian “Bigfoot” Bjornsen e un lungo e variegato carosello di personaggi più o meno grotteschi: l’ex sassofonista e tossico Coy Hardigen e sua moglie Hope, l’avvocato Sauncho Smilax, il pubblico ministero e amante di Doc Penny Kimball, il dentista cocainomane Rudy Blatnoyd, il miliardario e insospettabile criminale Crocker Fenway.
Come riassumere l’universo multiforme e complesso di Pynchon? Anderson agisce su una doppia direzione, narrativa e stilistica, abbattendo diverse complicazioni di trama e una serie di caratteri aggiuntivi che intasavano la fluidità del racconto cinematografico e utilizzando lo strumento della dissolvenza incrociata per scandire le sequenze. Un’ulteriore presa di posizione che segna lo scarto rispetto al romanzo è l’utilizzo di Sortilège, amica di Sportello, come narratore interno. La sua voce musicale si sostituisce al flusso acido del narratore pynchoniano, non a caso il ruolo è stato affidato alla cantante e musicista folk Joanna Newsom. È Sortilège a liberare Doc, poco a poco, dal disordine che lo circonda e a fare il punto della situazione, l’ancora di salvezza per lo spettatore, ma anche colei che “conosce cose…cose di noi, che noi stessi non conosciamo” come dirà Shasta nel finale.
«Eppure non c’è modo di evitare il tempo, il mare del tempo, il mare del ricordo e della dimenticanza, di anni di promesse ormai andate, irrecuperabili…» suggerisce Sortilège poco prima che termini il film, quasi un epitaffio sui meravigliosi sixties e il fallimento della rivoluzione hippy. Ma se la voce di Sortilège è al tempo stesso fantasmatica e rivelatoria, del tutto sottile e inafferrabile è il personaggio di Shasta. Doc, nella prima scena, ha lo sguardo perso nel vuoto, al di là dei margini dell'inquadratura: non sappiamo cosa cerchi, cosa fissi, e quando si volta per l'improvviso palesamento di Shasta, lei gli chiede se pensa che sia un'allucinazione. Ciò che si vede in scena oltrepassa la scissione canonica reale/onirico, immergendo lo spettatore in una dimensione altra che si irrobustisce in modo direttamente proporzionale all'intricarsi del pasticcio in cui cerca di fare luce il protagonista. La voce di Sortilège, che abbiamo visto in primo piano “iniziare” il racconto, come se fosse il principio di una testimonianza, ci introduce la figura di Shasta in mise borghese e il ricordo di Doc dell’ex fidanzata che indossava i sandali e una maglietta stinta dei Country Joe & the Fish.
La visione di Shasta è paritetica all’illusione generata dal fantasma: nella sua prima apparizione, con il taglio di luce a nascondere parte del volto e lo sfondo blu in contrasto con il suo abito; come un ricordo annebbiato che riemerge lentamente dalle onde del mare, Shasta riaffiora chiedendo aiuto per presto scomparire nell’ingarbugliato agglomerato di case, lasciando Doc con un mistero da risolvere e la confusione di chi è stato scosso dal torpore. Nella seconda apparizione Shasta seduce Doc: questa volta la mise è quella dei suoi ricordi, con la maglietta stinta dei Country Joe & the Fish in bellavista, Shasta ritorna come oggetto del desiderio provocando Doc, chiedendogli “Che tipo di ragazza ti serve?”, raccontandogli i precedenti con l’amante e culminando nella violenza dell’amplesso: una femme fatale perfetta. In questa seconda apparizione è singolare l’utilizzo del campo/controcampo: manca la “quinta” di Shasta, quasi a suggerire il carattere allucinatorio della conversazione, in una sorta di soliloquio interiore al cervello di Doc, il quale, tra l’altro, intravede poco prima Bigfoot in televisione. A più riprese numerosi studiosi hanno evidenziato questo carattere incorporeo dei personaggi che circondano Doc, quasi fossero il prolungamento cognitivo di un suo viaggio psicotropo.
‹‹The gap between ‘ephemeral’ vision and ‘corporeal’ being is something Anderson places emphasis on throughout the film. So many of the carousel of characters first appear as “mediated” beings. For example, Doc’s nemesis, LAPD Detective Lieutenant Christian “Bigfoot” Bjornsen (Josh Brolin), is first seen in a television ad costumed in “hippie” gear promoting the “Channel View Estates” housing development; Coy Harlington (Owen Wilson), a musician and former dope addict, now supposedly an undercover government agent, is first glimpsed in a family photo taken by his ex-junkie wife Hope (Jena Malone); Mickey Wolfmann stares out at us from a newspaper photograph before he makes his one and only appearance in corporeal form late in the film; hit man Adrian Prussia (Peter McRobbie) first appears to us in FBI photo files. At one point Doc scribbles and emphatically underlines the words “Not hallucinating” in his notebook. It’s likely also a note addressed to the audience on Anderson’s behalf.››2
Bigfoot è il contrario di Shasta: fisico, caricaturale, caratterizzato come il duro tenente anti-hippy che mangia gelati a forma di banana e indossa improbabili capigliature afro per pubblicizzare in televisione un nuovo polo costruito dal miliardario Wolfmann. Eppure nonostante incarni l’antitesi di Doc rimane come quest’ultimo avviluppato nella luminosa ambra californiana, dove è impossibile scorgere la fine dell’enigma e si è costretti a lasciare il passo alla disillusione, come farà Doc, o alla follia, come farà Bigfoot irrompendo nel rifugio di Sportello e trangugiando la marjuana.
‹‹With Inherent Vice, Anderson brings us tangibly close to the colors and moods and dream horizons of America in the days of Hawks and Doves. We breathe its air and move with its remembered gesticulations at its peculiar pace. And as we settle in with Joaquin Phoenix’s restlessly brooding Doc Sportello, we become attuned to his stoned intuition that all appearances are illusory, fragile, temporary, hence that there’s a hidden reality to be penetrated.››4
Inherent Vice è dunque la cartina al tornasole di un’epoca sommersa, eclissata dai repentini cambiamenti culturali, la trasposizione in immagini del fallimento di una certa idea di mondo. Nonostante il senso di disillusione diffuso, anche a tratti ironico, il film termina con la scritta “Under the paving-stones, the beach!”, citando il famoso graffito comparso sui muri di Parigi nel Maggio del ’68; forse è la stessa spiaggia che Sportello osserva a inizio film, forse quella luce che nel finale illumina il suo volto indica la strada, forse è solo un’enorme illusione luminosa, forse è solo il cinema.

3. Dissolvi et impera
Oltre alla faticosa operazione di controllo dell’effluvio verboso del testo di Pynchon, Anderson lavora in maniera netta sullo stile, come d’altronde ha sempre fatto nella sua carriera. A differenza dell’approccio totalizzante di Magnolia e Boogie Nights, intessuti su lunghissimi e arzigogolati piani sequenza, con movimenti di macchina repentini e dolly calibrati al millimetro, lo stile di Anderson si è orientato verso un controllo del quadro e sulla costruzione di una messa in scena non più concentrata sulla dinamicità della macchina da presa, ma sul montaggio interno all’inquadratura. Sia in Inherent Vice che in The master il regista insiste sulle tensioni interne all’immagine, ingabbiando i personaggi in long take slabbrati, i quali però non esauriscono il senso della sequenza. A questi elementi è necessario aggiungere l’utilizzo determinante della dissolvenza incrociata: la convergenza e lo scontro tra due immagini per unire lì dove il testo di Pynchon demistifica e ingarbuglia il lettore. La dissolvenza è quindi usata da Anderson quasi come amuleto protettivo, un’autodifesa, dal ridondante e paranoico andirivieni del romanzo, oltre che per una ovvia sutura delle parti.
Persiste anche la fascinazione per la pellicola, condivisa con il collega e amico Tarantino: Inherent Vice è girato in 35 mm, gonfiato in 70 e convertito in DCP. Inoltre è stato girato con tipo di pellicola usurata per restituire l’atmosfera demodé, da istantanea, degli anni Settanta. In un’intervista rilasciata per il The Guardian, Anderson ha descritto come l’idea originaria alla base del film fosse quella di costruire delle cartoline sbiadite5. Con Robert Elswit, già Premio Oscar per la Miglior Fotografia de There Will Be Blood, il regista ha architettato un visual design che mostrasse la molteplicità di colori: i toni morbidi negli interni delle abitazioni, la brillante luminosità del sole della California, le nebulose insegne al neon grigio-viola che caratterizzano anche il font del titolo, le sfumature della nebbia in una storia dove è difficile scorgere un orizzonte, o meglio, l’orizzonte, il punto di approdo dello sguardo, consiste proprio in questa impossibilità della vista. Proprio per questo lo stile della regia di Anderson è essiccato rispetto alle sue prime opere, quasi come se la Storia, quella con la S maiuscola, entrasse in dissidio con la visione del regista, e a causa della convergenza di sguardi, con quella alterata di Doc Sportello.
La dissolvenza oltre che a fondere due immagini le fa implodere e collassare, così come l’intero spazio californiano sembra subire un costante scivolamento verso gli spazi chiusi del potere. Ronald Reagan è al primo mandato come governatore della California, i neo-nazisti dominano le piazze criminali, la polizia è violenta e punitiva, il conservatorismo mostra i pugni a qualsiasi forma di antagonismo. Paranoia è la parola chiave nel panorama politico-sociale losangelino dalla quale Doc si difende rinchiudendosi nella sua abitazione, protetto da sguardi indiscreti e rifugiandosi nella droga e nella fruizione d’immagini televisive, ma anche nella sua proprietà vige un senso di repressione a causa del continuo viavai dei personaggi che letteralmente invadono questo suo spazio privato. Anderson lavora sulle espressioni e sui tic di Doc, come quando sui titoli di testa, dopo la prima visita di Shasta, scruta intorno preoccupato come se ci fosse una presenza, qualcosa nell’aria che sta cambiando. È anche il testo della canzone che parte sui titoli di testa sembra suggerircelo: “A beautiful blows, I stay at the corner/ She is living in and out of tune/Hey you/You're losing, you're losing, you're losing, you're losing your vitamin C”. Anderson utilizza molte canzoni d’epoca, dal krautrock dei succitati Can al folk di Neil Young (un altro possibile alter-ego di Doc), unendole ai soundscape di Jonny Greenwood, polistrumentista dei Radiohead e già in precedenza autore delle colonne sonore per il regista californiano.
4. ‹‹That’s ok with me››
Nel panorama mediale contemporaneo numerosi lungometraggi ruotano intorno all’etichetta crime, tra cui il neo-noir, anche a causa dell’ingente processo di rimediazione che ha colpito i generi: la serializzazione televisiva è tornata infatti ad occuparsi, alternando qualità e competenze, ai generi che popolavano uno spazio rilevante nella produzione cinematografica a cavallo tra gli anni ’30 e ’40, rimescolando archetipi e narrazioni tipici di un periodo storico e legandole alla coolness dei caratteri. Dal dramma familiare travestito da gangsterismo italoamericano dei Soprano all’atmosfera noir-esoterica di True Detective, fino alle derive criminali e giudiziarie a là Better Call Soul, la televisione si è impossessata, e in alcuni casi rilanciato, un immaginario che aveva il cinema come corsia preferenziale. La televisione è quell’elettrodomestico che genera un flusso inestinguibile di informazioni, il cinema è una rifrazione: il riflesso di un fascio di luce proiettato contro la parete. In questa grotta uterina della sala cinematografica continuano ad agitarsi gli spettri del contemporaneo, le viziose riscritture del passato, alla ricerca di una risoluzione in grado di decifrare il presente. Un presente che si rivela illeggibile, frammentato e decomposto; un universo simile a quello che circonda Doc Sportello che, ancora aggrovigliato nell’intricata matassa, ci regala un ultimo sguardo.

[1] Sull’idea di “Doc” come testimone rimandiamo a Roberto Manassero, Paul Thomas Anderson. Frammenti di un discorso americano, Bietti Heterotopia, Milano 2015, pp. 134-138 [2] Rolando Caputo, California Dreaming: P.T. Anderson’s Take on Pynchon’s Inherent Vice, in http://sensesofcinema.com/2015/feature-articles/california-dreaming-p-t-andersons-take-on-pynchons-inherent-vice, Marzo 2015 [3] Kent Jones, What’s up Doc?, in Film Comment, https://www.filmcomment.com/article/inherent-vice-paul-thomas-anderson-joaquin-phoenix/, Novembre/Dicembre 2014 [4] Mark Kermode, Paul Thomas Anderson: ‘Inherent Vice is like a sweet, dripping aching for the past’, in https://www.theguardian.com/film/2014/dec/28/paul-thomas-anderson-intereview-inherent-vice-mark-kermode
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